Gruppo vocale Alamire - Commenti ai brani
 

Guida all’ascolto

JOHN DUNSTABLE (ca. 1385 - 1453)
Quam pulchra es
(motetto a 3 v.)

Questo brano ci trasporta nel mondo del motetto di epoca tardo-gotica. In generale, vorremmo sottolineare il carattere solare, quasi sorridente di questo brano, e la sua espressività che nasce dal continuo, necessario rapporto tra musica e testo.
Il brano può essere suddiviso in due parti quasi esattamente della stessa lunghezza, in base alle voci parlanti nel testo poetico: nella prima parte (batt. 1-29) l’innamorato descrive la sua amata; nella seconda (batt. 31-58) l’azione passa all’amata, e ne succedono delle belle. Il testo è completamente diverso per tono e contenuto, e di conseguenza anche la musica ha un diverso carattere. Ciò che diremo nelle prossime righe vale in rapporto a entrambe queste dimensioni, che vanno considerate un tutto unico, che chiameremo “testo/musica”.


1. La contemplazione dell’amata

Da principio il tono è estatico, stupito, mentre l’innamorato decanta senza risparmio d’immagini la bellezza della sua amata. Ben presto il testo passa dalla visione generale dell’amata a una descrizione più dettagliata (batt. 9 e seguenti, “Statura tua… ”) e il testo/musica s’infiamma di nuovo ardore, mentre il poeta e il compositore si sforzano, insieme, di dipingere l’amata per accumulo di metafore e similitudini. La musica si fa suggestiva della palma svettante verso il cielo; il capo della fanciulla, ben consapevole della propria bellezza, si erge fiero (batt. 18-20), mentre il testo “ut Carmelus” viene resto con entusiasmo e varietà di ritmi.

L’ultima immagine della serie (“collum tuum sicut turris eburnea”) ripropone un’alternanza tra austera fierezza e l’elaborata fioritura dell’immagine della torre d’avorio, che sfuma in un finale sottile e, come dire?, poco conclusivo. È come se l’innamorato fosse per un istante rimasto senza parole. A questo punto, come approfittando di questo momento di sospensione, entra in scena l’amata.


2. Il movimento degli affetti

L’avvio della seconda parte è estremamente raffinato ed espressivo, una vera e propria miniatura in musica. Sembra quasi di vederla, questa meravigliosa fanciulla, fino ad ora mollemente adagiata ad ascoltare le proprie lodi, inebriata, che si riscuote, tende la mano all’amato perché l’aiuti ad alzarsi e gli dice: “Veni, dilecte mi, egrediamur in agrum…” (“vieni, mio amato, andiamo nella campagna…”).
Il testo della prima parte è caratterizzato dal verbo essere, implicito anche nelle similitudini, ad ogni “sicut”. Ora, al contrario, la prima parola pronunciata dalla fanciulla è l’imperativo di un verbo di movimento; tutta la seconda parte, testo e musica, è pervasa dal movimento – e dal desiderio, che, come insegnano i filosofi antichi, è “movimento dell’anima”. Spiccano in modo particolare le prime due espressioni indicanti movimento: “veni, dilecte mi” e “egrediamur in agrum”. A questa frase, in cui l’amata invita l’innamorato ad uscire dal suo stato contemplativo per muoversi verso di lei, segue l’esortazione a partecipare insieme dello stesso movimento (“egrediamur”). E si tratta di un movimento fisico, ma anche spirituale, emotivo: dalla contemplazione si passa alla sfera della passione.
Questo pugno di battute (31 - 38) suggerisce che, da una parte, l’amata ha intenzioni che vanno al di là del senso letterale delle sue parole e, dall’altra, testimonia l’ambivalenza del lato umano dell’amore nella cultura medioevale. Notiamo la profonda, quasi vagante ambiguità tonale di questa frase, in particolare in corrispondenza di “egrediamur in agrum”, che potrebbe esprimere il “pericoloso” invito ad entrare nel mondo della passione, che equivale a perdersi in un labirinto di sensazioni ed emozioni; e la sinuosità di questo passaggio sembra suggerire il corrispondente movimento della fanciulla.

A questo punto (batt. 39) è presente un cambio di tempo che dà al motetto una nuova spinta e leggerezza. Qui parla l’amata, ora senza più incertezze, e spiega all’innamorato quali meraviglie potranno vedere nella loro escursione – e ci viene da pensare: “quante scuse…!”; infatti, dopo aver suggerito in modo scherzoso di esplorare i frutti dei campi, la fanciulla sussurra con trepidazione la sua vera intenzione: le voci sillabano omoritmicamente: “ibi dabo tibi…”; il complemento oggetto “ubera mea” è nettamente evidenziato da un’emiolia, l’unica in tutto il brano, e se le traduzioni della Bibbia non osano andare oltre il significato figurato di “uber” (per esempio la Bibbia di Gerusalemme traduce “là ti darò le mie carezze”), il contesto musicale insiste nel farci propendere per il significato letterale del testo: “là ti darò i miei seni”.
Ecco che la fanciulla ha finalmente reso esplicite le sue intenzioni! E a questo punto l’autore assicura ai due innamorati un’adeguata privacy comportandosi come un moderno regista che con eleganza, dopo aver ripreso tutta la scena fino a questo punto, abbandoni i due giovani al loro amore e lasci vagare l’occhio discreto della telecamera sul paesaggio circostante; intanto ai canti degli uccelli si sovrappone l’“alleluja” finale, che sancisce in tono festoso il coronamento di questa celebrazione dell’amore umano.


Ecco, l’abbiamo fatto: abbiamo reso pubblica la lettura semiseria - ma, crediamo, non arbitraria - di questo motetto che tante volte ha rallegrato le nostre sessioni di studio: una lettura che costituisce anche l’anima del nostro intento esecutivo. E così, o lettore, se per avventura ti capiterà di essere presente durante una nostra esecuzione di questo brano e ci vedessi in certi momenti sorridere mentre cantiamo… beh, ora ne conosci il motivo.